La paura è la più primitiva tra le nostre emozioni, quando raggiunge gli estremi è la più concreta e reale delle nostre sensazioni; coinvolge mente e corpo in una sequenza così veloce da battere sul tempo qualsiasi pensiero ed elaborazione mentale
Ciò che determina il delinearsi di una forte sintomatologia fobica, non è l’evento iniziale, ma tutto ciò che il soggetto fa per evitare la paura. Questo significa che “le tentate soluzioni” messe in atto dalla persona per allontanare la paura dello scatenarsi delle proprie reazioni emotive e somatiche della paura, conducono al peggioramento dei sintomi stessi, finendo per aggravarla fino alla completa generalizzazione delle percezioni e reazioni fobiche nei confronti della realtà. Tale generalizzazione porta il soggetto ad uno stato chiamato helplessnes ovvero l’impotenza appresa. L’individuo cioè finisce con l’attendersi di non poter esercitare alcuna influenza e controllo sugli eventi. La condizione di impotenza appresa può determinare tre condizioni: la depressione, una reazione di paura acuta e cronica di tipo persecutorio, il ricorso a rituali e credenze capaci di controllare la minaccia degli eventi temuti.
Il fobico cerca continuamente di controllare o evitare le condizioni che potrebbero scatenare l’escalation dalla paura al panico, ed è proprio questo tentativo di controllo che conduce alla perdita di controllo. Nell’intento di controllore le proprie reazioni il soggetto rivolge continuamente la sua attenzione all’ascolto dei parametri fisiologici che indicano l’innalzarsi del livello di ansia (battito cardiaco, ritmo respiratorio, senso di equilibrio, lucidità mentale,…), ma poiché essi sono funzioni spontanee dell’organismo, il loro controllo razionale ne altera la naturale espressione. Il soggetto percepisce questa alterazione e si spaventa; i parametri fisiologici si alterano ulteriormente, la paura aumenta e, se questo circolo vizioso di interazione disfunzionale tra mente e corpo non viene interrotto, si giunge all’attacco di panico.
L’osservazione empirica e l’esperienza clinica evidenziano due tipici copioni comportamentali che si accostano al circolo vizioso di percezioni e reazioni interne precedentemente descritto: la tendenza ad evitare la situazione associata all’attacco di panico e la costante ricerca di aiuto o protezione da parte di altre persone. Entrambe le modalità di gestione della paura la alimentano.
Se un individuo associa all’attacco di panico una situazione, che sia per una esperienza diretta o per una supposta pericolosità, di solito tende ad evitarla. Ma il fatto stesso di aver evitato la situazione temuta conferma la sua pericolosità e la sensazione di inadeguatezza del soggetto, aumentando la paura della volta successiva. Ciò implica dapprima la sensazione di salvezza dal panico, poi alimenta l’idea di non essere capace di affrontare la situazione evitata. La fuga dopo la fuga produce una sfiducia generalizzata del soggetto rispetto alle proprie risorse.
Il soggetto che ha completamente perso la fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare le situazioni che considera critiche addossa agli altri la responsabilità di aiutarlo, intervenendo prontamente nel caso di un attacco di panico o rassicurandolo con la loro presenza per prevenire l’innescarsi del fenomeno. Questa tipologia di relazione offre sì immediata protezione, ma al tempo stesso conferma al soggetto la sua incapacità e inadeguatezza.
Per riassumere, il disturbo prende avvio dal primo ed insolito piccolo momento critico reale o immaginario che schiude al soggetto la percezione di perdita di controllo. A quello seguono i tentativi di controllo delle proprie reazioni, che incrementano, invece di ridurle, tali sensazioni iniziali. Sulla base di ciò la persona inizia a mettere in atto il copione di evitamento e la tattica della richiesta di aiuto diretta o indiretta. Queste strategie alimentano il senso di insicurezza del soggetto rispetto alle proprie risorse, rafforzando piuttosto che diminuire la percezione delle minacce. Se la persona procede per qualche mese in questo modo giungerà alla costruzione della trappola dalla quale non potrà più uscire con le proprie forze.
La fuga e la richiesta di protezione sono reazioni naturali orientate all’autopreservazione, sono strategie in genere efficaci contro la paura; è il loro esasperarsi e generalizzarsi che le rende patogene. In altri termni è il sovradosaggio che fa male. Inizialmente o nell’immediato queste strategie funzionano bene, ma con l’andare del tempo esse si irrigidiscono e divengono disfunzionali.
Il più delle volte il trattamento iniziale della sintomatologia fobica è il ricorso a farmaci tampone della reazione. Tale intervento se non associato ad una terapia mirata, il più delle volte è efficace solo inizialmente per poi perdere pressoché totalmente i suoi effetti terapeutici. Si trasforma anch’esso in una tentata soluzione che alimenta piuttosto che ridurre il problema, poiché abitua la persona a delegare al farmaco la sua capacità di resistere alle reazioni di panico.
L’intervento di elezione per i casi di attacchi di panico, paura e fobie è la psicoterapia breve strategica. La ricerca ha evidenziato che essa ha un’efficacia del 95% dei casi trattati e che la risoluzione del problema sia raggiunta in media in 7 sedute di trattamento distanziate di 15 giorni (Nardone, 2016).